Reparto numero 6

reparto numero 6 - nomen omen

Scheda artistica

 

La vicenda si ispira al racconto di Anton Cechov “Reparto n. 6”, ambientato in un manicomio criminale di fine ottocento, ma anche agli attualissimi fatti di cronaca che riguardano casi di violenza in carcere e alcune morti “sospette”.

Regia: Danilo Zuliani, Alessandra Maccotta

Testo di: Susanna Gentili

Con: Danilo Zuliani, Luciano Ciandra, Andrea Adinolfi

Scenografia: Anthony Rosa

Costumi: Nina Morelli

Musiche ed effetti: MinimalRome

 

Sinossi

Una cella qualunque di un carcere qualunque. Un detenuto tormentato (Luciano Ciandra) e un medico mediocre (Danilo Zuliani) in un reparto penitenziario. Due punti di vista differenti: uno dentro, l’altro fuori.

Dall’incontro dei loro vissuti nasce un dialogo sul senso della giustizia, il valore della sofferenza e il significato della vita. Il medico, fanatico di filosofia, vive una profonda crisi di coscienza, scatenata dagli attacchi verbali di Ivan, il recluso che lo apostrofa dalle sbarre della sua cella. Il medico rompe il cerchio delle sue oziose abitudini e cerca l’amicizia di Ivan che lo sferza con una frusta di parole, penetra nei suoi pensieri, smonta le sue teorie ma gli fornisce gli attimi che più desidera: quelli trascorsi a condurre una conversazione “intelligente”. Questo nuovo e ritrovato entusiasmo nella grigia esistenza del medico diventerà l’elemento fatale della vicenda.

Sullo sfondo lo squallore di un non-luogo, la bassezza di chi agisce nel nome dell’autorità (Il secondino Nikita, Andrea Adinolfi) e le atrocità che nessuno vede e nessuno si preoccupa di interrompere.

Il racconto Cechoviano, nel testo elaborato per la scena da Susanna Gentili, diventa un‘occasione per gettare uno sguardo su ciò che succede “dentro”, prima che un telo torni a celare questa realtà.

 

Note di regia

Sul palco, una scenografia essenziale: un’impalcatura (l’istituzione), un separé (la differenza), un rocchetto e dei manichini attaccati con funi robuste (l’immobilità/la prigionia). In platea: una poltrona, dei libri, un computer (l’isola felice). Il carcere, luogo maledetto de umanizzante e de umanizzato, i meccanismi dell’istituzionalizzazione e i suoi prodotti, ben lontani dall’idea del recupero e della rieducazione, sono simboleggiati dalla routine che vivono i protagonisti della storia. Il detenuto, costretto all’immobilità perenne, non ha niente dell’eroe o dell’antieroe. E’ una maschera realistica di un’umanità a brandelli, sezionata dal processo di mortificazione del sé che le istituzioni totali perseguono scientemente. Un’umanità che trova altre strade per sopravvivere a discapito delle privazioni. Dove finanche il chiudersi in una coperta diventa l’estremo atto di difesa, il ritirarsi dalla situazione, e il suicidio: l’ultima fuga. Il carceriere è il braccio dell’istituzione che cinge il detenuto nel sistema punizione-privilegio. E’ colui che persegue la spoliazione delle singole identità e delle dignità umane, fino a rendere il detenuto un manichino senza memoria e senza tempo. Il medico, in ultimo, che irrompe nella scena lavandosene le mani, abituato da anni a sorvolare su quanto accade intorno a lui. A ben vedere, il suo è un distacco esistenziale, protettivo. Vive nella sua realtà separata dal mondo, immerso nella difensiva routine fatta di birra, libri e speculazioni filosofiche. E’ colui che, pur essendo un medico che agisce in un carcere, ha scelto la linea del “disimpegno” sociale, alla ricerca di una vaga forma di intelligenza che rimarca nella purezza della lingua contro il linguaggio gergale della quotidianità. Ivan, il detenuto, lo attrae perché rappresenta ai suoi occhi la forma grezza del pensiero. Riconosce in lui “l’uomo pensante” informe, allo stato puro. Questa attrazione intellettuale segna in lui un cambio di prospettiva, un coinvolgimento emotivo che lo porterà dall’altra parte e non solamente in senso metaforico. Le privazioni dell’incarceramento e l’isolamento, che egli ha vagheggiato come salutari per la coscienza dell’uomo moderno e come una buona via per l’elevazione spirituale, gli si paleseranno in tutta la loro spietata drammaticità proprio in conseguenza della perdita della tranquillizzante routine quotidiana.